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La CTR di Milano distingue tra cattivo affare e società di comodo

Legislazione - Normative

Si vivacizza la quantità di pronunce giurisprudenziali in tema di società di comodo.

Ci riferiamo alla sentenza della CTR di Milano n. 2068 depositata il 18-05-2015, il cui testo è stato diffuso in questi giorni. Il caso analizzato è davvero frequentemente riscontrabile nelle casistiche che si rinvengono negli studi professionali.

 

Una società immobiliare acquista un terreno agricolo, ritenendo che sul medesimo si possano effettuare speculazioni edilizie a seguito di possibili mutamenti del piano regolatore. Per effetto di cambiamenti sopravvenuti, invece, tali modifiche non vengono realizzate e, per conseguenza, la speculazione si rivela impossibile.

Rimane in carico alla società un bene dall’ingente valore economico che, per effetto dell’arido meccanismo di funzionamento del regime delle società di comodo, determina la richiesta di altrettanto ingenti volumi di ricavi che, ovviamente, non vengono prodotti.

L’agenzia delle entrate parte con l’accertamento e la CTP di Lecco conferma la bontà del suo operato, trascurando la valutazione delle tesi difensive della società.

I giudici della CTR di Milano, invece, riconoscono l’insufficienza della motivazione dell’appellata sentenza e, a parere di chi scrive, ben cristallizzano la corretta chiave interpretativa del fenomeno delle società di comodo: “Va innanzi tutto rilevato che l'ufficio non ha mai indicato, pure a fronte di precise argomentazione della controparte, quali fossero in concreto le finalità elusive che avrebbero indotto i soci della XXX a costituire una società immobiliare al solo fine di intestarle un terreno agricolo mantenuto incolto fino alla cessione dello stesso in comodato gratuito”.

Ed ancora, ben chiarendo che non si tratta di un inciso senza significato, ben chiariscono che “le finalità antielusive che hanno determinato il Legislatore alla disciplina più sopra citata erano chiare nel senso di penalizzare comportamenti astrattamente fraudolenti diretti a dissimulare beni (in genere di lusso) utilizzati da persone che, pur avendo la disponibilità del bene, non ne figuravano proprietari attraverso intestazioni fittizie a persone giuridiche o fisiche che rappresentavano uno schermo con finalità chiaramente elusive”.

Appare allora chiaro che:

  • se una società acquista dei beni che sono utilizzati (in modo più o meno palese) dai soci per finalità personali (oppure, potremmo spingerci ad affermare con qualche titubanza, sono astrattamente idonei per tale utilizzo e non si è in grado di provare il contrario) il regime delle società di comodo rappresenta un sistema (grezzo) per contrastare tale fenomeno;
  • se una società acquista dei beni per destinarli alla attività e, per qualsiasi motivazione, non riesce nel proprio intento, non deve essere aggredita con il predetto sistema che presume la formazione di ricavi, proprio per il fatto che manca qualsiasi pericolosità nella struttura azienda. Infatti, “la ratio di tale norma non giustifica comunque il riferimento alla società di comodo ed alla relativa disciplina tutte le volte che l'operatività della società sia determinata da eventi esterni che ne paralizzino le finalità statutarie ed operative posto che, in tali casi, vengono meno quelle finalità fraudolente coltivate attraverso il mancato assolvimento delle dovute imposte”.

Certo è che risulta indispensabile giustificare il cattivo andamento dell’iniziativa (e qui emerge con chiarezza il problematico tema delle modalità con cui convincere l’amministrazione anche in sede di interpello preventivo).

Nel caso particolare il comportamento descritto ha convinto i giudici (“… emerge dalla documentazione richiamata dall'appellante come credibile la motivazione che ha indotto a suo tempo i soci alla costituzione della società e poi all'acquisto di un terreno …”) in quanto:

  • l’acquisto del terreno agricolo è avvenuto ad un prezzo molto superiore a quello di mercato per terreni agricoli nella stessa Zona;
  • era in stato avanzato il procedimento amministrativo per la edificabilità in edilizia civile di quel terreno, progetto poi naufragato negli anni successivi per il mutato indirizzo dell'amministrazione comunale;
  • nessun vantaggio era comunque derivato, né poteva derivare, in base alla normativa antielusiva ai soci della società;
  • tale pretesa operazione sarebbe qualificabile unicamente come un pessimo affareche avrebbe realizzato per i soci una perdita senza alcun beneficio fiscale in quanto il progetto edificatorio sarebbe nel tempo naufragato;
  • sono state avanzate ripetute istanze all'amministrazione comunale che le ha sempre disattese, tanto da costringere la società a un ricorso la TAR Lombardia nel 2014 contro l'amministrazione stessa.

Da tali circostanze, dunque, i Giudici derivano che:

  • “è credibile che la immobiliare avesse l'intento (peraltro coerente col proprio statuto) di costruire su quel terreno; per il quale evidentemente erano sorte aspettative poi deluse”;
  • “il contenzioso in atto con l'amministrazione comunale rende evidente che l'operatività della società è stata impedita da provvedimenti dell'autorità amministrativa comunale con propri atti la cui legittimità non è oggetto di scrutinio in questa sede ma non da finalità elusive mai chiarite dall'Ufficio”;
  • “nessun rilevo ha la questione della riclassificazione del bene” (presumibilmente da immobilizzazione a bene merce, anche se la questione ben non si deduce dalla sentenza in commento) “riguardo alla già citata carenza di finalità elusive”.

Quindi, un cattivo affare non dovrebbe preoccupare, in un paese normale, l’amministrazione finanziaria, bensì unicamente le tasche del contribuente che ci rimette risorse proprie.

Se tale approccio dovesse consolidarsi, sarebbero davvero minime le preoccupazioni di tutte le immobiliari che, negli ultimi anni, si sono confrontate con le note difficoltà di piazzamento sul mercato di immobili in vendita o locazione; ovviamente, non sempre è così facile, come nel caso in analisi, fornire adeguate giustificazioni.

 

 


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