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Accertamento analitico – induttivo e percentuali di ricarico
Legislazione - Decreti |
La presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa e del volume d’affari, a condizione che la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente e sostanzialmente inattendibile, in quanto configgente con i criteri della ragionevolezza (Cass. 15 maggio 2015, n. 9968). Al ricorrere di tali ipotesi, è consentito all’Agenzia delle Entrate desumere – sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti – maggiori ricavi o minori costi, determinando il reddito del contribuente mediante le percentuali di ricarico. Il ricorso al sistema della media semplice, anziché di quella ponderata, non è legittimo quando tra i vari tipi di merce esiste una notevole differenza di valore, ed i più venduti presentano un coefficiente di ricarico inferiore a quello medio.
Accertamento analitico induttivo
L’art. 39, co. 1, lett. d), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 stabilisce che, per i redditi d’impresa delle persone fisiche, l’Amministrazione Finanziaria procede alla rettifica se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui al precedente art. 33, ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture, degli altri atti e documenti aziendali, nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’Ufficio nei modi previsti dall’art. 32: “L’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”.
Il co. 2, lett. d), dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973 prevede, inoltre, che – in deroga al co. 1 – l’Agenzia delle Entrate determina il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti, e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui al co. 1, lett. d), se ricorrere una specifica condizione: “le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ai sensi del precedente comma ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica. A questo proposito, le scritture ausiliarie di magazzino non si considerano irregolari se gli errori e le omissioni sono contenuti entro i normali limiti di tolleranza delle quantità annotate nel carico o nello scarico e dei costi specifici imputati nelle schede di lavorazione a norma dell’art. 14, co. 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973.
L’Agenzia delle Entrate deve accertare l’imponibile e, quindi, il reddito effettivo del contribuente e non solo i ricavi: conseguentemente, in sede di accertamento induttivo ai sensi dell’art. 39, co. 2, del D.P.R. n. 600/1973, l’Ufficio – qualora, per specifici proventi, non sia possibile addivenire ai costi – deve determinare questi ultimi induttivamente, e riconoscerli in deduzione dal maggior reddito accertato (Cass. nn. 3995/2009 e 28028/2008).
Le suddette disposizioni sono ritenute valide, in quanto applicabili, anche per i redditi delle imprese minori e per quelli derivanti dall’esercizio di arti e professioni, con riferimento alle scritture contabili rispettivamente indicate negli art. 18 e 19 del D.P.R. n. 600/1973.
Accertamento induttivo Iva
L’art. 55, co. 1, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 riconosce all’Agenzia delle Entrate – se il soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto non ha presentato la dichiarazione annuale – il diritto di procedere, in ogni caso, all’accertamento del tributo dovuto, indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità: al ricorrere di tale ipotesi, l’ammontare imponibile complessivo e l’aliquota Iva applicabile sono determinati induttivamente sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza dell’Ufficio. Il co. 2, n. 3) della disposizione precisa, inoltre, che quanto previsto dal predetto co. 1 si applica anche qualora le omissioni e le false o inesatte indicazioni o annotazioni accertate ai sensi dell’art. 54 del D.P.R. n. 633/1972, ovvero le irregolarità formali dei registri e delle altre scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione, siano così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibile la contabilità del contribuente.
Sul punto, si rammenta che il citato art. 54 del D.P.R. n. 633/1972 stabilisce che:
- l’infedeltà della dichiarazione, qualora non emerga direttamente dal contenuto della stessa, deve essere accertata mediante il confronto tra gli elementi indicati nel modello Iva e quelli annotati nei registri di cui agli artt. 23, 24 e 25 del D.P.R. n. 633/1972, e tramite il controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni sulla scorta delle fatture e degli altri documenti, delle risultanze di altre scritture contabili e degli ulteriori dati e notizie raccolti nei modi previsti dall’art. 51 del D.P.R. n. 633/1972;
- le omissioni e le false o inesatte indicazioni possono essere indirettamente desunte da tali risultanze, dati e notizie a norma del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 441, o anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti;
- l’Ufficio può, tuttavia, procedere alla rettifica indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità, qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che attribuiscono il diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto – e non in via presuntiva – da verbali, questionari e fatture di cui all’art. 51, co. 2, nn. 2), 3) e 4), del D.P.R. n. 633/1972, o da verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti, nonché da altri atti e documenti in suo possesso.
L’accertamento induttivo ai fini delle imposte dirette differisce sostanzialmente da quello Iva di cui all’art. 55 del D.P.R. n. 633/1972, in quanto il primo tende alla ricostruzione del reddito d’impresa realizzato dal contribuente, mentre il secondo è diretto alla rideterminazione del volume d’affari dell’attività. La conseguenza è che l’Agenzia delle Entrate deve riconoscere presuntivamente i costi relativi ai ricavi induttivamente calcolati, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, mentre nella ricostruzione indiretta del volume d’affari – per quanto concerne la detrazione dell’Iva afferente l’acquisto di beni e servizi – può essere riconosciuta soltanto l’imposta effettivamente versata in rivalsa, e risultante dalle liquidazioni periodiche presentate (Cass. n. 14703/2014).
Cass. n. 9968/2015
Le suddette tematiche sono state recentemente approfondite dalla Suprema Corte, investita della questione posta da una società in nome collettivo, avverso la rettifica operata dall’Agenzia delle Entrate per la maggiore Iva dovuta in conseguenza della ricostruzione, in via induttiva, di un più consistente volume d’affari, ai sensi dell’art. 54 del D.P.R. n. 633/1972.
A supporto di tale ricorso, il contribuente aveva dedotto che:
1. la contabilità aziendale era regolare, e non contestata dai verbalizzanti;
2. la percentuale di ricarico (86,335%) era stata determinata comparando i prezzi di acquisto a quelli di vendita, senza tenere conto che il costo del venduto non poteva essere calcolato in modo unitario, trattandosi di “beni di qualità e pregio assai diversi tra loro”;
3. la ricostruzione delle merci in magazzino alla data della verifica (1° aprile 2000) era stata operata, non sulla scorta di un inventario generale delle merci in magazzino, bensì, utilizzando le stampe effettuate dal computer aziendale, in relazione alla metà delle giacenze di magazzino alla predetta data;
4. la medesima percentuale di ricarico, determinata con riferimento all’anno 2000, era stata estesa a ben 4 periodi d’imposta, compreso quello oggetto di contestazione (1997).
I giudici di legittimità, con la sentenza n. 9968/2015, hanno osservato, in primo luogo, che se è vero che la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude l’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa (art. 39, co. 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973) e del volume d’affari (art. 54 del D.P.R. n. 633/1972), è pur sempre necessario che la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente e sostanzialmente inattendibile, in quanto configgente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente. In tali casi, pertanto, l’Amministrazione Finanziaria può dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere – sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti – maggiori ricavi o minori costi, ad esempio, determinando il reddito del contribuente mediante l’impiego delle percentuali di ricarico, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del soggetto passivo stesso (Cass. nn. 23550/2014, 27488/2013, 7871/2012, 6849/2009, 26388/2005 e 6337/2002).
In presenza di scritture contabili formalmente corrette, non è sufficiente, ai fini dell’accertamento di un maggior reddito d’impresa, il solo rilievo dell’applicazione da parte del contribuente di una percentuale di ricarico diversa da quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, posto che le medie di settore non costituiscono un “fatto noto”, storicamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico quello ignoto da provare, ma soltanto l’esito di un’estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, risultando, quindi, inidonee ad integrare autonomamente gli estremi di una prova per presunzioni. È, invece, necessaria la sussistenza di qualche elemento ulteriore – tra cui anche l’abnormità e l’irragionevolezza della difformità tra la percentuale di ricarico applicata dal contribuente e la media di settore – incidente sull’attendibilità complessiva della dichiarazione, ovvero la concreta ricorrenza di circostanze gravi, precise e concordanti.
Non è, pertanto, legittima la presunzione di ricavi, maggiori di quelli contabilizzati ed assoggettati ad imposizione, fondata sul raffronto tra i prezzi di acquisto e quelli di rivendita operato su alcuni articoli, anziché su un inventario generale delle merci da porre a base dell’accertamento (Cass. nn. 6852/2009 e 979/2003). Analogamente, non è neppure legittimo il ricorso al sistema della media semplice, anziché di quella ponderata, qualora tra i vari tipi di merce esista una notevole differenza di valore e quelli maggiormente venduti presentino una percentuale di ricarico inferiore a quello medio (Cass. nn. 13319/2011 e 6849/2009). Si rammenta, inoltre, che – secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità – le percentuali di ricarico costituiscono presunzioni semplici, che devono essere assistite dai requisiti di cui all’art. 2729 c.c., ovvero desunte da dati di comune esperienza ed esplicitate attraverso un adeguato ragionamento (Cass. n. 34/2002).
L’atto di rettifica sufficientemente motivato dall’Agenzia delle Entrate, con la specificazione degli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune voci contabili (dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata), è assistito da presunzione di legittimità in merito all’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’Amministrazione Finanziaria è tenuta a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte (Cass. n. 23550/2014). Per converso, grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perché proprio una tale condotta è generalmente alla base di documenti omessi per operazioni inesistenti o di valore ampiamente eccedente quello effettivo (Cass. nn. 14068/2014, 7871/2012, 951/2009 e 24532/2007).
In tema di rettifica della dichiarazione Iva, la determinazione – in via presuntiva, in sede di accertamento induttivo – della percentuale di ricarico effettiva sul prezzo della merce venduta deve essere effettuata adottando un criterio che sia:
1. coerente con la natura e le caratteristiche dei beni considerati;
2. applicato ad un campione di beni scelti in modo appropriato;
3. fondato su una media aritmetica o ponderale, scelta in base alla composizione del campione di beni (Cass. n. 3197/2013).
Nel caso esaminato dalla Cass. n. 9968/2015, la Commissione Tributaria Regionale non aveva, invece, indicato in alcun modo le ragioni che l’avevano indotta a considerare attendibile la stima del costo del venduto, operata dall’Amministrazione Finanziaria, mediante il criterio della media semplice – raffrontando i costi di acquisto con quelli di vendita – anziché di quella ponderata, che tiene conto della diversa collocabilità dei prodotti sul mercato, ignorando alcuni specifici elementi: la mancanza di rilievi di sorta, da parte dell’Ufficio, in ordine all’attendibilità generale della contabilità; la presenza di specifiche deduzioni del contribuente, in merito alla maggiore ampiezza del magazzino, rispetto ai dati acquisiti mediante stampa dai computer aziendali, nonché alla varietà e diversità delle merci commercializzate.
Con riguardo all’estensione della percentuale di ricarico, calcolata con riferimento al periodo d’imposta 2000, al diverso e più risalente anno 1997, oggetto della verifica, la Cass. n. 9968/2015 ha altresì osservato che i principi di inerenza dei dati raccolti ad un determinato e specifico periodo d’imposta, e di effettività della capacità contributiva, escludono la legittimità della supposizione della costanza del reddito in anni diversi da quello in cui è stata accertata la produzione, in special modo quando non si tratti di periodi d’imposta immediatamente successivi. In tal senso, è stata richiamata la Cass. n. 5049/2011, che ha ritenuto legittima la percentuale di ricarico “determinata con riferimento alla dichiarazione del contribuente relativa al periodo di imposta precedente a fronte di un volume di vendite accertato sulla base di dati afferenti all’esercizio in corso come sono le rimanenze iniziali e finali di magazzino”.
In tale sede, la Suprema Corte ha, inoltre, ritenuto infondata l’eccezione, formulata dal contribuente, sulla presunta omessa motivazione, da parte della Commissione Tributaria Regionale, relativamente ai fatti decisivi della controversia, in merito al denunciato vizio di utilizzazione della percentuale di ricarico dell’anno precedente per determinare induttivamente il reddito dell’anno successivo. I giudici di legittimità hanno, invece, rilevato che la CTR ha riscontrato la congruità logica della verifica della Guardia di Finanza incentrata sull’accertamento dell’attendibilità delle scritture contabili, mediante:
- la rilevazione e descrizione della merce giacente nei locali aziendali;
- la compilazione degli elenchi con le quantità, i prodotti e i corrispettivi unitari di vendita, come risultanti dal listino dei prezzi esposti al pubblico;
- l’individuazione, in contraddittorio con la parte, dei gruppi di appartenenza delle somministrazioni e dei prodotti ceduti;
- l’identificazione del costo di acquisto dei prodotti giacenti;
- la valutazione della merce in magazzino;
- la determinazione del costo del venduto, in misura pari alla sommatoria delle esistenze iniziali e degli acquisti, rilevati dalle scritture contabili, al netto delle rimanenze finali di magazzino
In relazione alla rideterminazione della percentuale di ricarico nella minor misura del 75%, operata dalla Commissione Tributaria Regionale, rispetto a quella individuata dall’Agenzia delle Entrate (86,335%), la Cass. n. 9968/2015 ha definito la motivazione della sentenza impugnata “del tutto anapodittica e contraddittoria”: ciò in quanto il giudice di secondo grado è pervenuto a tale quantificazione disattendendo, senza ragioni esplicite, quella diversa operata dall’Amministrazione Finanziaria, sulla base di non meglio precisati criteri equitativi, e pur dando atto dell’impossibilità di operare un esatto calcolo di tale percentuale, “trattandosi di elaborazioni mal precise che possono determinare, in modo non volontario, errori, discordanze o imprecisioni”.
Accertamento induttivo e principi di diritto
In virtù delle suddette considerazioni, la Cass. n. 9968/2015 è, pertanto, pervenuta alla formulazione dei seguenti principi di diritto:
- la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa e del volume d’affari, sempre che la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente e sostanzialmente inattendibile, in quanto configgente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente. Al ricorrere di tali ipotesi, è consentito all’Ufficio desumere – sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti – maggiori ricavi o minori costi, determinando il reddito del soggetto passivo mediante le percentuali di ricarico, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente medesimo;
- il ricorso al sistema della media semplice, anziché di quella ponderata, non è legittimo quando tra i vari tipi di merce esiste una notevole differenza di valore, ed i più venduti presentano un coefficiente di ricarico inferiore a quello medio.
Estensibilità ai periodi d’imposta precedenti
La Cass. n. 9968/2015 ha, inoltre, ricordato che la sentenza del giudice tributario mediante la quale si accertano il contenuto e l’entità degli obblighi del contribuente per un determinato periodo d’imposta fa stato – con riferimento alle imposte dello stesso tipo dovute per altre annualità dello stesso soggetto – soltanto per quanto attiene a quegli elementi che abbiano un valore “condizionante” inderogabile sulla disciplina delle altre componenti della fattispecie esaminata, come le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria. Ne discende che la sentenza che risolva una situazione fattuale in uno specifico periodo d’imposta non può estendere i propri effetti automaticamente ad un’altra annualità della stessa imposta, ancorchè siano coinvolti tratti storici comuni (Cass. nn. 1837/2014, 22941/2013, 20029/2011 e 18907/2011).
In tale sede, è stato altresì osservato che l’identità di rapporto – idonea a far ritenere una lite coperta dal giudicato di una precedente sentenza resa tra le stesse parti – deve essere esclusa nel caso in cui le due controversie riguardino, anche soltanto in parte, imposte strutturalmente ed oggettivamente, diverse come l’Iva e le imposte dirette (Cass. nn. 235/2014, 25200/2009, 8773/2008, 5943/2007 e 2438/2007). La giurisprudenza di legittimità ritiene, inoltre, che – anche con riferimento alle imposte dello stesso tipo, dovute per annualità diverse da quelle oggetto del giudizio in corso – il giudicato già formatosi in relazione a tali annualità non possa avere alcuna efficacia vincolante quando l’accertamento riguardante i diversi anni d’imposta debba fondarsi su dati e ricostruzioni contabili diversi. Ciò ricorre, in particolare, nell’ipotesi in cui l’efficacia esterna del giudicato sia invocata con riferimento all’avvenuto annullamento di avvisi di accertamento diversi, aventi ad oggetto annualità differenti, in una controversia riguardante una diversa annualità della stessa imposta. Tali avvisi – che, nel caso di specie, non riguardavano la sola Iva, ma anche le imposte dirette – sono da ritenersi, infatti, fondati su autonomi accertamenti in rettifica, il cui annullamento non può automaticamente essere esteso all’annualità ancora in contestazione.
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