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Quando una società si definisce di comodo

Legislazione - Decreti

La disciplina delle società di comodo è stata introdotta con l’articolo 30 della legge 724 del 23 dicembre 1994.

Da allora ha subito notevoli modifiche ed ampliamenti, che hanno allargato la platea dei soggetti che rientrano nel suo perimetro di applicazione, nonché creato un quadro che oggi appare quanto mai complesso, articolato e suscettibile di diverse interpretazioni.

 

La norma vuole colpire le società “di comodo”, altrimenti dette “non operative”, ovvero le società che non esercitano una effettiva attività commerciale, non rispondono ad esigenze di tipo imprenditoriale, ma perseguono altri fini.

Ecco quindi introdotto il tema: sono società non operative, e quindi di comodo.

Si deve subito precisare che i termini “di comodo” e “non operative” sono utilizzati in modo fungibile dal legislatore, che richiama il primo nella rubrica dell’articolo 30 della legge 724/1994, ed il secondo nel corpo della norma, con ciò manifestando il proprio disinteresse a distinguere tra i due concetti, che a rigore potrebbero indicare due fattispecie differenti.

Sono soggette alla disciplina delle società di comodo:

- le società per azioni;
- le società in accomandita per azioni;
- le società a responsabilità limitata;
- le società in nome collettivo;
- le società in accomandita semplice;

- le società e gli enti non residenti di ogni tipo, purché con stabile organizzazione nel territorio dello Stato.

Come si fa a stabilire se una società è di comodo?

Questa è di solito la parte più semplice della questione, perché una società è considerata di comodo se:

  • non supera il c.d. test di operatività, previsto dal comma 1 della legge 724/94;
  • oppure è in perdita per cinque periodi di imposta consecutivi, o per quattro periodi è in perdita e per il quinto non consegue il reddito minimo delle società di comodo determinato ai sensi del comma 3 dell’articolo 30 della legge 724/1994.

Il presente speciale è tratto dall'E-Book "Società di comodo: guida alla disapplicazione" del Dott. de Rosa Francesco in vendita sul Business Center.

 

Il test di operatività per stabilire se una società è di comodo

Il c.d. test di operatività, il cui mancato superamento fa scattare la presunzione che una società sia di comodo, è un raffronto tra la media dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi (esclusi quelli straordinari) conseguiti nell’esercizio in cui si effettua il test e nei due precedenti, ed il valore che si ottiene applicando ai beni della società le seguenti percentuali:

  • 2 per cento alle quote di partecipazione ed agli strumenti finanziari;
  • 6 per cento agli immobili ed alle navi;
  • 5 per cento agli immobili di categoria A/10;
  • 4 per cento agli immobili abitativi acquistati o rivalutati nell’esercizio e nei due precedenti;
  • 1 per cento agli immobili situati in comuni con meno di 1.000 abitanti;
  • 15 per cento alle altre immobilizzazioni.

Ai fini del test di operatività, il valore dei beni deve essere determinato secondo l’articolo 110 del TUIR, ed assunto in base alla media dell’esercizio in cui si effettua il test e dei due precedenti.

In caso di acquisto o cessione di un bene nel corso del periodo di imposta, deve essere effettuato il ragguaglio alla minore durata del possesso.

Per i beni in locazione finanziaria si assume il costo sostenuto dall’impresa concedente, ovvero, in mancanza di documentazione, la somma dei canoni di locazione e del prezzo di riscatto risultanti dal contratto (art. 30, comma 2, ultimo periodo).

Per le regole applicative del test di operatività, ed in generale per l’illustrazione delle presunzioni e delle penalizzazioni disciplinate dall’articolo 30 della legge 724/1994, si rimanda alla corposa circolare dell’Agenzia delle entrate n. 25/E del 4 maggio 2007.

Si deve evidenziare l’importanza del test di operatività, elemento centrale della normativa e, fino alle novità introdotte con il decreto legge 138/2011, unico elemento per verificare la non operatività della società. Il mancato superamento del test, dal 2011 in alternativa al conseguimento di perdite, fa scattare la presunzione di non operatività e le penalizzazioni della disciplina.

Il conseguimento di perdite sistematiche

Si considerano di comodo, in aggiunta alle società ed agli enti che non superano il test di operatività, i medesimi soggetti quando conseguono perdite fiscali per cinque periodi di imposta consecutivi, oppure nell’arco di cinque periodi di imposta conseguono perdite per quattro periodi e nel quinto un utile inferiore al minimo delle società di comodo, su cui ci soffermeremo nel prossimo paragrafo.

 

Nel corso della trattazione, per semplicità di esposizione, faremo riferimento solo al quinquennio di perdite, essendo implicito che quanto diremo vale anche per il caso in cui uno dei cinque periodi presenti un utile di esercizio inferiore a quello minimo derivante dall’applicazione delle percentuali di cui all’articolo 30, comma 3, della legge 724/1994.

 

La disposizione sulle società in perdita sistematica è stata introdotta con i commi 36-decies e 36- undecies dell’articolo 2 del decreto legge 138/2011, e prevedeva inizialmente che il periodo di osservazione fosse di tre esercizi e non di cinque. La condizione di società di comodo si verifica dal periodo di imposta successivo al quinquennio.

Il conseguimento di perdite per il numero di esercizi previsto dalla norma costituisce una differente causa di innesco della disciplina delle società non operative, come si evince chiaramente dalla lettura del comma 36-decies, secondo il quale le società in perdita sistematica sono considerate non operative “ai sensi e per gli effetti del citato articolo 30 [della legge 724/1994]”.

Le società in perdita sistematica sono, pertanto, soggette alle presunzioni di cui ai commi 3 e 3-bis dell’articolo 30 della legge n. 724/1994, che attribuiscono un reddito minimo ed un valore della produzione minimo ai fini Irap, così come alle penalizzazioni Iva di cui al comma 4, nonché alla norma sull’interpello ed a tutto quanto previsto dalla disciplina che stiamo esaminando.

Non si tratta, dunque, di una categoria nuova e diversa di società di comodo, ma solo di una fattispecie diversa che fa presumere la natura di comodo di una società. Questa considerazione è molto importante, come sarà ripreso in seguito, per individuare le argomentazioni alla base dell’interpello disapplicativo o della prova contraria da fornire in sede di contenzioso.

 

Le conseguenze della non operatività: imposte sui redditi, Irap, Iva

 

Lo status di società di comodo o non operativa comporta conseguenze molto gravose e penalizzanti, che interessano allo stesso modo i soggetti che non superano il test di operatività ed i soggetti in perdita sistematica.

 

In primo luogo, per le società e gli enti non operativi si presume che il reddito del periodo di imposta non sia inferiore all’ammontare della somma degli importi derivanti dall’applicazione, ai beni posseduti nell’esercizio, delle seguenti percentuali (articolo 30 della legge 724/1994, comma 3):

  • 1,5 per cento alle quote di partecipazione ed agli strumenti finanziari;
  • 4,75 per cento agli immobili ed alle navi;
  • 4 per cento agli immobili di categoria A/10;
  • 3 per cento agli immobili abitativi acquistati o rivalutati nell’esercizio e nei due precedenti;
  • 0,9 per cento agli immobili situati in comuni con meno di 1.000 abitanti;
  • 12 per cento alle altre immobilizzazioni.

Le percentuali di redditività si applicano ai beni posseduti nell’esercizio, e non alla media dei valori dell’esercizio e dei due precedenti come avviene per il test di operatività.
L’articolo 2, comma 36-quinquies, del decreto legge 138/2011, ha introdotto una maggiorazione del 10,5 per cento sull’aliquota Ires da applicare al reddito delle società di comodo.

Inoltre, l’ultimo periodo del terzo comma dell’articolo 30 della legge 724/1994 dispone che le perdite di esercizi precedenti possono essere computate in diminuzione soltanto della parte di reddito che eccede quello minimo determinato dall’applicazione delle percentuali dello stesso comma terzo.

Il reddito così determinato è preso a base del valore minimo della produzione netta delle società di comodo, che, ai sensi del comma 3-bis dell’articolo 30 della legge 724/1994, corrisponde allo stesso reddito minimo aumentato:

  • delle retribuzioni sostenute per il personale dipendente;
  • dei compensi spettanti ai collaboratori coordinati e continuativi e per le prestazioni di lavoro autonomo non esercitate abitualmente;
  • degli interessi passivi.

Quindi, lo status di comodo fa scattare la presunzione che i beni producano un certo reddito. Nello spirito di fornire strumenti per la disapplicazione della disciplina e non dilungarci sulle altre questioni, non ci soffermeremo molto sul senso di questa presunzione. Qualche commentatore ha fatto rilevare che vi sarebbe un contrasto logico tra la premessa della non operatività e la conseguenza della produzione di un reddito minimo, mentre altri hanno spiegato che nella società non operativa il reddito deriverebbe dai beni atomisticamente considerati, e visti nella loro oggettiva capacità di produrre dei frutti individualmente, non essendo inseriti in un contesto di impresa operativa.

Resta il fatto che il reddito delle società di comodo è un reddito presunto, non effettivo, e questo rende la presunzione del comma 3 dell’articolo 30 piuttosto indigesta. Si è anche parlato di imposta patrimoniale, ma, ripetiamo, non ci dilungheremo e non riprenderemo l’argomento se non quando si parlerà di prova contraria al conseguimento del reddito presunto.

Se, però, la presunzione di reddito è stata in qualche maniera spiegata e giustificata, non si ravvisano, invece, spiegazioni plausibili a sostegno della logicità e coerenza della determinazione presuntiva del valore minimo della produzione ai fini Irap, che si presta in parte alle medesime critiche della determinazione del reddito; con la differenza, però, che il valore della produzione non può discendere dall’impiego dei beni individualmente considerati, poiché per l’Irap conta il valore della produzione che un’attività economica organizzata è in grado di creare. Inoltre, la presunzione di un valore minimo della produzione netta ai fini Irap è costruita in maniera oltremodo semplicistica, tanto da portare in alcuni casi a risultati contrari alla ratio dell’imposta.

Quanto alle penalizzazioni Iva, dettate dal comma 4 dell’articolo 30 della legge 724/1994, ve n’è una che scatta immediatamente, appena la società si configura come non operativa, ed un’altra che invece richiede che lo status di società non operativa sia mantenuto per tre periodi di imposta consecutivi. La prima parte del comma 4 stabilisce, infatti, (prima penalizzazione) che le società di comodo non possono chiedere a rimborso, né utilizzare in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 241/1997 (compensazione orizzontale), o cedere ai sensi dell’articolo 5, comma 4-ter, del decreto legge 70/1988, l’eccedenza di iva a credito risultante dalla dichiarazione relativa all’anno in cui la società è di comodo. Resta consentito l’utilizzo per la compensazione verticale (Iva da Iva).

Nel periodo successivo del comma 4 si disciplina il caso (seconda penalizzazione) del soggetto che risulta di comodo per tre esercizi consecutivi, che perde definitivamente e ad ogni effetto l’eccedenza di credito Iva, non più riportabile neanche a scomputo dell’Iva a debito.

Perché ciò accada è necessaria l’ulteriore condizione che in nessuno dei tre anni siano state effettuate operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto in misura almeno pari all’importo che risulta dall’applicazione delle percentuali del test di operatività. Occorre, quindi, non solo che il test non sia superato (oppure che la società sia di comodo per perdite sistematiche), ma anche che le operazioni Iva (volume di affari) dell’anno siano in ogni anno del triennio inferiori all’importo che discende dall’applicazione delle percentuali del test ai beni dell’anno stesso.

 


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