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II TERMINI DI DECADENZA PER IMPUGNARE L’ASSEMBLEA DI UNA ASSOCIAZIONE

Legislazione - Decreti

La Suprema Corte di Cassazione (sentenza sez. I – 10 aprile 2014 n. 8456) ha confermato il termine di decadenza entro il quale debba essere impugnata la delibera di esclusione di un associato.

Il quadro normativo di riferimento (combinato disposto di cui agli artt. 23, 24, 36 e 38 cod. civ.) traduce l’esigenza di caratterizzare il contratto associativo quale vincolo di natura volontaria che lega i soggetti che vi partecipano, dallo scopo comune e da una organizzazione interna determinata dagli stessi associati, inclusiva del sistema giustiziale o della creazione di un foro cd. interno cui l’associato demanda la risoluzione delle controversie scaturenti dal rapporto associativo; l’intervento giudiziale statale è circoscritto al controllo della legalità interna ovvero alla conformità statutaria delle  deliberazioni degli organi, escluso il sindacato sulla opportunità intrinseca della deliberazione.

 

Dal combinato disposto di cui all’art. 23 e 24 c.c. si ricava che  l’associato può reagire giudizialmente contro la delibera di esclusione entro sei mesi dalla conoscenza e chiedere la sospensione della deliberazione impugnata quando sussistono gravi motivi

Il termine decadenziale inizia a decorrere dalla data di pubblicazione, espletato tale incombente, la parte è in grado di informarsi  facendo uso della diligenza  dovuta, attingendo quanto necessario per poter svolgere impugnazione entro il termine ampio di sei mesi fissato a pena di decadenza.

L’esperienza, però, conosce, oltre all’ipotesi  “piana” della reazione all’espulsione in quanto priva dei motivi giustificatori, altra in cui la delibera di esclusione  trascende l’interesse del membro espulso a conservare la posizione di socio collocandosi sul piano di un atto gestionale dell’ente privo, presuntivamente, dei requisiti minimi essenziali  da renderlo nullo.

Nel primo caso nulla quaestio; la delibera che ha come contenuto l’esclusione del socio, sul presupposto della ricorrenza dei gravi motivi, è impugnabile nel termine di sei mesi dal giorno in cui all’associato è stata notificata la deliberazione ex art. 24 c.c. La norma condiziona l’esclusione alla sussistenza di gravi inadempienze che rendono incompatibile il proseguimento della vita associativa e costituiscono turbamento del rapporto sociale che reclama la rimozione nell’interesse generale  di tutti gli associati.  Non qualsiasi inadempimento ma l’adempimento agli obblighi assunti con l’adesione al patto statutario può costituire grave motivo idoneo a giustificare l’esclusione.

Il giudice adìto con la domanda di invalidazione, dovrà valutare la ricorrenza dei gravi motivi alla stregua della “non scarsa importanza” dell’inadempimento contrattuale ex art. 1455 c.c. avuto riguardo all’idoneità della condotta contestata ad incidere nell’economia complessiva del rapporto.

Quid iuris qualora la delibera espulsiva venga impugnata non solo per contestare  la sussistenza dei gravi motivi necessari per l’esclusione ma anche per negare la legittimità  della stessa in quanto affetta da vizi che si traducono in ragioni di nullità o inesistenza?

Ovvero, ci si chiede se va applicato il regime di cui all’art. 23 c.c. per cui i vizi delle delibere assembleari sono denunciabili in ogni tempo e da qualsiasi interessato, oppure se, stante la contestuale impugnativa per l’assenza di motivi idonei a giustificare l’espulsione opera il regime di cui all’art. 24 c.c.  3 comma che assoggetta l’azione dell’associato espulso al rispetto del termine perentorio di sei mesi che trascorso inutilmente  determina l’estinzione del diritto .

“In tali casi di promiscuità di motivi di censura, l’azione giudiziaria deve essere proposta nel termine decadenziale di sei mesi dalla conoscenza della decisione; la conoscenza è presupposto idoneo a far decorrere il termine di decadenza  di sei mesi previsto dall’art. 24 c.c.”

Questa la soluzione  cui è pervenuta la Corte di Cassazione con la recente pronuncia in esame sul ricorso di due associati esclusi che instavano per l’annullamento della delibera  oltre il termine fissato nella norma, giustificando l’inutile decorso con la non assoggettabilità  a termini di decadenza in quanto l’impugnazione era diretta  a demolire la delibera non solo per l’assenza dei gravi motivi di esclusione ma anche perché affetta da vizi; in tal caso doveva trovare applicazione l’art. 23 c.c.  e quindi  la delibera era impugnabile in ogni tempo da qualunque interessato non trovando applicazione la previsione del termine decadenziale.

La Corte di Cassazione richiamava un precedente secondo cui la non operatività del normale regime di impugnazione di cui all’art. 23 c.c. è con riguardo alle  decisioni “che abbiano contenuto diverso dall’esclusione del singolo associato mentre per queste ultime” ovvero quando venga impugnata una delibera di esclusione, “l’azione è esperibile  esclusivamente dall’interessato nel termine   di decadenza di sei mesi  dalla notificazione, tanto se rivolta a contestare la sussistenza di gravi motivi necessari per l’esclusione, tanto se diretta a negare la  legittimità dell’esclusione”.

 

 


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